Regolamento BlogTour:
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2. Mettere "Mi Piace" alla pagina Facebook del libro "Il Creasogni";
3. Unirsi ai lettori fissi di tutti i blog aderenti l'iniziativa;
4. Condividere tutte le tappe sui vostri social;
5. Chi avrà seguito il regolamento fino alla fine e avrà sognato con noi potrà vincere una delle sei copie del libro in palio;
I vincitori dei due giveaway verranno estratti tramite random ( saranno pubblicati i video nella tappa del 3 Agosto)
Se siete nuovi, siete ancora in tempo per partecipare! ;)
La luce arrivò, anch’essa
d’improvviso, fino quasi a essere più forte del sole che pure là fuori oramai
picchiava duro. «Signore e signori, benvenuti al Circo Dupónn!», annunciò una
voce squillante.
Ed eccolo entrare al rullo di tamburi. Elegante,
tanto che anche i suoi passi sembravano sfiorare appena la pista. Al suo fianco
un leone, il più grande di questo angolo di mondo. Camminava dolcemente,
ammansito come se quell’uomo – così gracile e minuscolo al confronto – avesse la
possibilità di controllare la mente del «Re», indiscusso, degli animali. Il
pubblico smise di ridere, di parlare, di gridare, di battere le mani. Forse
persino di respirare.
Uno spettacolo che attimo dopo attimo si fece
più imponente, con quelle fiere che si muovevano, ringhiavano, svenivano a
terra e subito si rialzavano a un gesto, uno sguardo, un colpo di frusta del
domatore. Che fece sedere tutti gli animali sulle loro seggiole speciali: chi
più in alto, chi meno, chi vicino, chi lontano. Poi mise il leone al centro, lo
guardò negli occhi e sferrò una scudisciata fortissima nel-l’aria con la sua
frusta: «Sciacc!».
«Grrrr», l’animale lanciò un ruggito che risuonò
nel silenzio del tendone.
Qualche bambino scoppiò a piangere. Ma era un
pianto morto in gola, secco, con le lacrime che scendevano giù per la paura, e
il mento e il labbro inferiore che tremavano.
Il domatore raddrizzò la schiena ancora di più,
sollevò il mento, piegò gli angoli delle labbra all’ingiù e alzò un
sopracciglio. Poi si girò verso la folla, alzò le braccia sopra la testa e
incominciò a battere le mani con un ritmo cadenzato.
«Bam… bam… bam…».
E così, prima qualche adulto, poi anche i
bambini, uno dopo l’altro, iniziarono a seguirlo, a martellare le mani anche
loro, e qualche sorriso qua e là ricomparve, fece di nuovo capolino, come anche
le grida, le urla, gli scherzi, e quel clima di euforia che contagiò nuovamente
tutti, nel giro di pochi secondi.
I tamburi ricominciarono a rullare, il ritmo
saliva, finché… «Bum!».
Tutti capirono: era giunto il momento. Il
domatore fece mezzo giro su se stesso, offrendo al pubblico il profilo. Poi
mise il palmo della mano di fronte agli occhi del leone, come a volerlo
calmare. Fece un passo e avvicinò ancora più le mani alla sua bocca, a quelle «fauci».
«Ma che fa? Lo mangerà!», pensarono tutti.
Lui no. Anzi, poggiò la punta delle dita proprio
su quelle fauci, come se volesse far ingoiare una pastiglia a un bambino.
E le aprì!
Sì, aprì la bocca del leone, la spalancò, con
una facilità inimmaginabile, come se quello fosse incantato da tanto coraggio.
Fu un attimo, e il domatore mise la testa dentro. «Guardi SignorEttore!»,
sussurrò Catello sgranando gli occhi di fronte a tanta magia.
Il domatore allargò le braccia, mentre rimaneva
lì, tra i denti del leone. «Guardate di cosa sono capace, ho vinto!», sembrava
dire.
Tirò fuori la testa, richiuse la bocca. Fece una
carezza all’animale, come si fa con un cagnolino. Poi un passo indietro, di
nuovo una mezza torsione del corpo, verso il pubblico. E l’inchino.
Il tendone scoppiò in un applauso fortissimo,
fatto di grida di giubilo, di sorrisi, di sguardi d’ammirazione. Qualcuno salì
in piedi sulle seggioline, qualcun altro decise di avvicinarsi il più possibile
alla pista, quasi a volerlo toccare per dire «è vero, il domatore esiste
davvero!».
Fu un fragore così forte che l’avrebbero potuto
sentire anche a miglia e miglia di distanza.
Lo spettacolo proseguì per ore, finché il
pubblico uscì, con il cuore ancora in gola.
Una pausa, e poi
l’attacco. «Ma lei, ha mai sognato?», chiese nuovamente.
La Battistelli
sbiancò in volto. «SignorEttore…», provò a difendersi. Ma senza successo,
perché mentre tentava di costruire una difesa, le arrivò addosso un nuovo
affondo.
«Glielo chiedo
perché a volte, quando parliamo, mi viene da pensare che lei di sogni non se ne
intenda molto… o sbaglio?».
A queste parole
la donna cambiò un’ultima volta colore. D’un tratto si fece scura in volto,
come se una vita intera le fosse corsa incontro per poi caderle davanti,
sprofondare in una buca apertasi d’improvviso.
Il silenzio
attraversò la stanza, spingendo quel vuoto fin dentro i suoi occhi, scuri come
la pece.
«Io… non… non…».
Si voltò
all’improvviso e corse via, senza riuscire a dire altro. La sua mano scivolò
veloce sulla maniglia e i piedi anche scivolarono fuori, prima l’uno e poi
l’altro.
«Sbam! La
porta si chiuse alle sue spalle.
Ettore cercò di
andarle dietro, ma lei si era già dileguata. Nulla. Non un’ombra, non un
rumore, non un filo d’erba calpestato: se n’era andata, scappando via con quel
buio negli occhi. Neppure Cerino – con il naso incollato a terra – riuscì a
trovarla.
«Ho sbagliato»,
disse a mezza bocca Ettore.
«Ho sbagliato
ancora, come ogni volta che…», poi la sua voce si affievolì, come i ricordi
lontani che d’improvviso erano tornati a popolargli la mente. E si lasciò
andare, crollando esausto con le spalle poggiate alla parete esterna della
casa, quasi avesse bisogno di un muro a protezione, per non essere assalito
alle spalle, dalla vita e dai pensieri.
«Perché, Cerino,
perché ho fatto andare via anche lei…».
Gli occhi si
riempirono di lacrime. Lacrime che venivano dal passato, da prima, molto prima
di quel giorno di nonsisaquando e nonsisacome in cui era arrivato
in paese.
Ben presto si fecero le sei della
mattina: l’ora della sveglia della «piovenica».
Piovenica era il nome che a Mangiatrecase oramai si usava per indicare la domenica, perché inspiegabilmente da qual-che anno – un numero di anni che nessuno ricordava più – quel giorno incastonato tra il sabato e il lunedì era diventato, per definizione, un giorno di pioggia. E così qualcuno in paese si era preso la briga di coniare un nome per quelle ore tanto agognate durante la settimana: «piovenica», la domenica piovosa.
Anche in primavera o in estate, quando pure il clima avrebbe dovuto essere più clemente, bisognava rassegnarsi e concentrare tutto – le gite in campagna, i giochi e le passeggiate sottobraccio con gli anziani – al sabato, oppure posticiparle al lunedì mattina perché, cascasse il mondo, ogni piovenica la pioggia faceva sentire la sua voce.
Dunque con il tempo in molti avevano imparato la lezione e avevano iniziato a rimanere a casa – per il consueto riposo settimanale – di lunedì, dedicando invece la piovenica al lavoro, seppur blando. Una «inversione di giorni», insomma.
Per Ettore la piovenica era la giornata più dura della settimana, interamente dedicata a un’attività tanto complicata quanto delicata: il giro di riparazione dei sogni.
Da qualche tempo aveva infatti capito che alcuni sogni avevano bisogno di essere «rivisti», studiati per bene e poi «riaccordati», come fossero un grosso strumento difficile da suonare se non si è esperti.
Piovenica era il nome che a Mangiatrecase oramai si usava per indicare la domenica, perché inspiegabilmente da qual-che anno – un numero di anni che nessuno ricordava più – quel giorno incastonato tra il sabato e il lunedì era diventato, per definizione, un giorno di pioggia. E così qualcuno in paese si era preso la briga di coniare un nome per quelle ore tanto agognate durante la settimana: «piovenica», la domenica piovosa.
Anche in primavera o in estate, quando pure il clima avrebbe dovuto essere più clemente, bisognava rassegnarsi e concentrare tutto – le gite in campagna, i giochi e le passeggiate sottobraccio con gli anziani – al sabato, oppure posticiparle al lunedì mattina perché, cascasse il mondo, ogni piovenica la pioggia faceva sentire la sua voce.
Dunque con il tempo in molti avevano imparato la lezione e avevano iniziato a rimanere a casa – per il consueto riposo settimanale – di lunedì, dedicando invece la piovenica al lavoro, seppur blando. Una «inversione di giorni», insomma.
Per Ettore la piovenica era la giornata più dura della settimana, interamente dedicata a un’attività tanto complicata quanto delicata: il giro di riparazione dei sogni.
Da qualche tempo aveva infatti capito che alcuni sogni avevano bisogno di essere «rivisti», studiati per bene e poi «riaccordati», come fossero un grosso strumento difficile da suonare se non si è esperti.
"A volte non ci si accorge di quanto sia
repentino il passaggio dalla bellezza del giorno all’oscurità del buio; bastano
pochi minuti e quegli stessi prati che poco prima eravamo noi a dominare, con i
passi che schiacciavano le foglie, al calare del
sole prendono loro il sopravvento. Sono loro a dominare, dopo il tramonto. Sono
loro a farsi sentire, con quei rumori aspri e assordanti che, alla luce, non
avevamo notato. Sono loro a chiederci di rimanere in silenzio ad
ascoltare"
Camminarono per
non meno di tre ore, in aperta campagna. Erano esausti. Poi, finalmente,
’elefante si fermò per mangiare un po’ di frutta dagli alberi.
«Mangiamo anche
noi?», chiese la bambina, affamata.
«Sì, ottima idea
Melissa», rispose l’uomo, tirando fuori dalla borsa quel poco cibo che era
rimasto, biscotti e pane raffermo. Li diede alla bambina, poi si mise in un
angolo, aprì di nuovo la borsa e incominciò a lavorare.
«Che cosa sta
facendo?», chiese Melissa incuriosita, vedendolo armeggiare.
«Beh, sto
creando…».
«Creando? Ma che
cosa crea, se io non vedo niente?».
«Non puoi
vederlo ma…. Sto preparando un sogno».
«Un sogno? Ma… i
sogni si fanno di notte, mica si preparano!», rispose lei, un po’ stupita, un
po’ disincantata.
«Questo lo dici
tu… ti assicuro che i sogni, come questo qui, si possono preparare… è
difficile, è vero… però si può fare… ed è anche bellissimo», disse Ettore
mentre – con la lingua tra i denti – cercava di avvitare il sogno proprio in
quel punto così difficile da stringere, come se si fosse incastrato qualcosa,
inceppato un ingranaggio.
«Ah, ecco qui,
finalmente si è sbloccato!», esclamò.
«È pronto!».
«Ma cosa?».
«Un sogno, te
l’ho detto…», disse lui, come se fosse assurdo che qualcuno potesse non
credergli.
«Ma io non ho
mai sentito di nessuno che…».
«Che crea i
sogni, lo so Melissa», intervenne lui, «e infatti solo due… ehm, solo io li
riesco a vedere, da sveglio, e li posso costruire, questi sogni… eh eh eh»,
continuò, avvicinandosi
a un albero sul
ciglio della strada e armeggiando tra i rami.
«Ecco, lo lascio
proprio qui, in bella vista, non si può mai sapere, magari torna utile».
Le stelle dello
spettacolo, stavolta, furono però gli acrobati. Due, un ragazzo e una ragazza.
Altezza media e fisico scolpito da anni di esercizi lui, aggraziata ed elegante
lei. Leggeri, eterei, eppure allo stesso tempo possenti, pronti a incrociare le
mani e a farsi forza, uno con l’altro. Come due innamorati.
Tutti pensarono
che quella coppia fosse unita anche nella vita, nei sentimenti. Non ce n’era
prova, ma non poteva essere diversamente – sussurrava il pubblico –,
impossibile altrimenti trovare tanta sintonia di gesti e di sguardi, riuscire a
parlare lo stesso linguaggio, le stesse parole, pur essendo
due persone
diverse.
C’è solo
un’anima al mondo con cui è possibile trovare quella sintonia, con cui poter
volare da una stella all’altra, inseguendo i propri sogni, senza cadere giù. E
loro si erano trovati.
Imbracciarono le
funi e si arrampicarono su, a qualche decina di metri d’altezza, fino ad
arrivare ai loro trapezi.
Finirono la loro
esibizione calandosi da una di quelle funi, lentamente, con quei modi
aggraziati, dolci, facendo scivolare via le mani una dopo l’altra, fino ad
arrivare a terra. Un inchino, e poi corsero via, quasi danzando. Applauso.
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